IL COMMESSO ( UN CAPOLAVORO CHE TI CAMBIA LA VITA ! )
Sgobbava per ore e ore, era l’onestà fatta persona – non poteva proprio sfuggirle, era la sua palla al piede; sarebbe scoppiato se avesse imbrogliato qualcuno; eppure si fidava degli imbroglioni – non invidiava nulla a nessuno e diventava sempre più povero. Più sgobbava – la sua fatica era un’immagine del tempo che divora se stesso – meno sembrava possedere. Era Morris Bober e non poteva avere una sorte migliore. Con un nome così, il senso della proprietà ti era negato, come se il non possedere ce l’avessi nel sangue, nel destino.
Nella storia yiddish un bober indica una persona o una cosa che vale poco. Un’anima rattrappita che aspetta la fine dei suoi giorni. Un’ombra nell’ombra. Invece qualcosa resiste, è il piglio che viene dalla storia dei singoli, e da nessun dogma: la dignità. Morris Bober non la perde mai. E quando sta per farlo la ritrova nelle origini. Nella madre e nel padre, appunto. Ancora meglio, nell’infanzia. «Morris era pieno di malinconia e passava ore a sognare della sua infanzia. Ricordava i campi verdeggianti. L’uomo non dimentica mai i luoghi in cui ha corso da bambino».
Così il misero negoziante di Brooklyn afferra il coraggio ancora una volta. Corre come da bambino. Accetta l’aiuto del commesso, duella con la concorrenza, con la crisi nera, con i malanni e con un Dio scorbutico che non ha mai fatto girare la ruota dalla parte giusta. Ripaga l’anatema con la fatica. Ha queste braccia minute, la schiena curva, il volto di spigoli. Va avanti e a un certo punto sembra riuscire nell’impresa, poi la beffa si consuma: il commesso ruba. Inganna Morris. Arraffa un paio di dollari dall’incasso impietoso e poco importa se li rimette in cassa dopo qualche giorno per il rimorso. Il senso di colpa è nella matrice ebraica, si scaglia sul negoziante quando è imprigionato nella povertà, ricatta Frank Alpine per i furti e perché spia la figlia di Bober nella doccia.
«Come puoi o Signore accanirti ancora in questo modo?», è il tormento di Morris nell’attimo in cui scopre ogni cosa. Come puoi, o Signore? Il negoziante crede, tutta la sua famiglia fa il possibile per rispettare le leggi di Dio, anche se mangia prosciutto per niente kosher. E si limita a guardare la sinagoga da lontano. Forse viene da qui la maledizione che aleggia sopra questo minuscolo alimentari con gli scaffali mezzi vuoti, le pareti ingrigite, le luci che stentano. O forse è soltanto la vita di certi uomini come lui che «da adulti, in America, raramente avevano visto il cielo».
C’è un punto della storia in cui Morris si consulta con la moglie, il negozio peggio di così non può andare. Potrebbero metterlo all’asta e trovare un altro lavoro. Morris va a Manhattan per elemosinare aiuto a vecchi amici che hanno avuto fortuna al suo posto. Passa da negozio a negozio, qualcuno gli fa mettere un grembiule e lo sistema alla cassa del suo lussuoso emporio. Morris ha superato la sessantina, è piegato dal tempo e il mondo l’ha stancato. Fugge un attimo prima di essere compatito. Rinuncia, e diventa libero. Il ritorno nella sua Brooklyn è una passeggiata lunga, come lo è stata per Malamud dopo che è venuto a sapere del National Book Award. Incontra gente sconosciuta e qualche volto familiare. Cammina ancora, e per un attimo sente l’antidoto alla sua paura atavica, non sa bene di cosa si tratti. Fede? Fiducia in Frank Alpine? Rassegnazione? Incoscienza? La risposta è nel suo passo lieve che scaccia per un attimo la malasorte. Il commesso è questo, il manifesto di una vita inclinata e di una dignità salvata. Beato chi lo leggerà per la prima volta.
Verso la fine si tiene un discorso pubblico sull’integrità religiosa di Morris Bober, viene sollevata la questione della sua fede a singhiozzo: «“Posso chiamare ebreo quel tale che è vissuto e ha lavorato tra i gentili, vendendo la loro carne di porco, trayfe, robaccia che noi non mangiamo, uno che neanche una volta in vent’anni ha messo piede nella sinagoga; un uomo così è un ebreo?”» La risposta contiene il senso di questo romanzo sussurrato che custodisce la semplicità di una persona e delle persone. «“Sì, per me Morris Bober era un autentico ebreo, perché […] chiedeva poco per sé, non chiedeva niente, ma voleva per la sua diletta figliola un’esistenza migliore di quella che lui aveva avuta”».
Riporto una piccola parte , uno o più stralci di una lunga prefazione scritta da Marco Massiroli per " Il Commesso " di Bernard Malamud , un libro appena letto che mi sta insegnando a vivere. Lettura consigliata !
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